* Mi fa sorridere questa scritta letta sulla maglia di un signore che avevo davanti poco prima di entrare alle cascine..
 
Oggi ho corso la mia prima maratona, ho inanellato per la prima volta tutti i 42,195km uno dietro l’ altro, sotto l’ acqua ininterrotta di una Firenze grigia e fredda come poche volte ricordo di aver visto, con addosso solo un pantaloncino, scarpe e una maglietta, una pazzia, si probabilmente lo è stata, ma se chiudo gli occhi mi rivedo con gli altri 11mila pazzi e sono proprio contento.
Il tempo era veramente di merda oggi, l’ organizzazione ci aveva fornito di orribili sacchetti di plastica da indossare in caso di pioggia, e non sono state rare le immagini di file indiane di runners con indosso quel coso tutti uguali incamminati di buon ora verso la partenza.
Al piazzale Michelangelo ci hanno ingabbiato, questa parola mi fa molto ridere e ho cercato di usarla tutte le volte che ho potuto oggi, e poi ci hanno fatto partire nello stesso ordine dell’ ingabbiamento in base cioè al tempo di arrivo previsto per evitare così che i più veloci non si trovassero i più lenti davanti nel primo affollato tratto.
Dopo il via corsa tanta corsa. Mi ricordo le urla di incitamento dei passanti, i gruppi di runners vestiti tutti uguali, le scritte buffe sulle maglie, gli odiosi francesi che magari erano meno degli spagnoli ma si facevano sentire di più: Allez! Allez! Gli assistenti di gara, i volontari, la gente ferma con i crampi, la gente sdraiata collassata, le cascine con le gambe ancora fresche, il grigio tratto intorno allo stadio Franchi, la musica a tutto volume del Sashall, la massa di bicchieri in terra dopo i ristori, le felpe abbandonate dopo la partenza, il vecchino che manca poco mi si sdraia davanti al primo km, le amicizie nate e morte in 500 metri, il gap del mio Garmin, il ristoro del 35esimo km, i miei amici al 36esimo, il vento gelido dei lungarni, le “strategie di gara”, i gel, gli ultimi 2 infiniti chilometri, il tappeto blu di P.za Santa Croce.
Nessun famigerato muro su cui mi sono scontrato dopo i 30km ma sicuramente gli ultimi 7km ho rallentato, è una sensazione difficile da descrivere, con la tua testa vai alla stessa velocità di prima, hai le stesse sensazioni, non senti particolari dolori o affanno però guardi l’ orologio e vai 10 o anche 20 secondi più piano, solo se provi ad accelerare ti accorgi che qualcosa è cambiato, le gambe non sono più quelle reattive di prima, sarà questa la crisi?
E dopo la crisi la medaglia con sopra il faccione di Dante - la mantellina spaziale - consegna chip - pacco ristoro - stomaco ancora chiuso.  Ecco siamo di nuovo ingabbiati fino ai cancelli di uscita, in un tunnel di felicità e smarrimento dove piano piano arriva la consapevolezza di dove sei e cosa hai fatto, in quel lungo percorso devo dire di essermi commosso: sconosciuti che con le dita nella rete delle transenne ti salutano e si congratulano, te che realizzi, quel senso di orgoglio che piano piano prende il posto della fatica. Pain is temporary, Pride is forever**

**una scritta letta sul retro della maglietta di un maratoneta



"Si corre per scappare, partire, fuggire, cambiare, cercare, sognare, arrivare. Si corre per una somma di infiniti. E spesso per fermarsi. Si corre per sentire: il cuore, gli altri, ma soprattutto se stessi. Si corre per trovare una patria, per dimenticarla, per ricordarla. Perché i passi dell’ uomo che rotolano sono la continuazione di quelli del bambino che prova ad accorciare le distanze.
Si corre per pazzia, dolore, mancanze e lontananze, per non pensarci, perché non solo la bottiglia fa affogare ma anche 42 chilometri e 195 metri non sono male. Si corre per riaffiorare sulla schiuma dell’ esistenza, per bere sul dispiacere, per brindare al piacere, perché il respiro affannato non è un nemico, perché qualcosa ti dice che l’ unica verità è andare avanti, anche se non troverai niente.
Si corre per lo stesso motivi per cui si suona, si canta, si dipinge, si fotografa, si prega, si scrive, si legge, si guarda il mare, l’ orizzonte, i panni stesi al vento. Perché dentro alla corsa c’è qualcosa. Uno spazio vuoto da riempire, un foglio bianco da sporcare, fango, sudore, schizzi, falsa indifferenza. Dici: non m’ importa di chi sta dietro, avanti, di fianco, di quello che lascio, di quello che troverò, delle schegge di fatica, dell’ orgoglio, della vergogna, di quello che credevo, di quello che speravo, dei film che ho visto dove chi correva era ribelle, diverso, estraneo, solitario. La maratona nei film è un modo di dire no, non ci sto nella vostra società, preferisco altri battiti, va dove ti porta il cuore, si ma se i polmoni e i tendini fanno deviazioni pericolose? La maratona schiarisce destini, apre porte, spalanca cancelli, il paradiso può attendere, il traguardo no, pure se è pieno di delusione.
Non si corre mai per avere, casomai per perdere, perché tutto sfugge insieme ai chilometri, filo, fatica, desiderio. “Per sfidare chi ha il coltello dalla parte del manico” come fa dire Alan Sillitoe a Solin Smith ne La solitudine del maratoneta. Che poi è sempre una solitudine affollata. Nei film corrono i pazzi, gli eroi, i santi, quelli che sbattono, cascano, inciampano, e poi gli antieroi, quelli che stropicciano la gloria. Dustin Hoffman, Michael Douglas, Tom Hanks. E mai che sappiano spiegare il perché. C’è chi cerca la vita, chi la morte, c’è chi vuole restare a metà, e va bene così. La maratona è un bagaglio sbagliato, lo srotoli e non finisce mai, eppure pareva poco, quattro passi in famiglia, invece diventa tanto, un tempo dilatato, una clessidra dalla sabbia inarrestabile. Non c’è guerra né pace che tenga, la maratona non ripaga e non promette armistizi. Ti succhia il corpo, ti toglie la voglia, però ti rimette in strada, pure se sei uno straccio. Ti ammazza, ma non ti cancella. Ti trasporta da altre parti, ti trapianta altri sogni, e dormi che è meglio. E’ crudele la maratona, mai nulla di vicino, tutto sempre al di là dell’ infinito. Ti spezza il fegato, ti lascia un sapore amaro, e tu ridi, sorridi in cerca dello zucchero che è fiele e con la salita che lascia carie. Tra piaghe e vasche e beta endorfine, che sono una droga naturale.
Chi corre non evita mai niente, va solo più veloce, cerca scampo, più che felicità, tra curve, salite, discese, asfalto di città, sanpietrini della storia e bitume collassato. Inutile voltarsi indietro, la visibilità è scarsa, quello che hai lasciato è perso e quello che troverai non è detto. Però si può fare, si può lottare, passo dopo passo, l’ agonia è lunga ma se il dolore spinge diventa un alleato. Democrazia e dittature, deserti e metropoli, la maratona non ha un regime né una geografia. E non libera, anzi condanna, se corri sei un sovversivo, uno fuori dalle regole, un indipendente. Un esempio pericoloso. Mangi polvere, da proletario dei chilometri su cui cala un filo di nobiltà. Strappare il ritmo al mondo è un atto di anarchia, è rinascere con un altro fiato. La maratona è sempre una tempesta sbagliata: troppo caldo, freddo, vento, sole, pioggia, afa, umidità. Devi cercare soste nell’ anima, inventarti un riparo mentre cerchi un’ officina per riparare il guasto che non ti fa più andare. Tutto è impietoso: ti inquadrano mentre vomiti, mentre il fisico dice basta, mentre imbratti siepi e cespugli, e ci fosse mai qualcosa di più alto di una pianta di capperi a proteggerti dall’ indiscrezione e dal calvario. E’ una crisi di mezza età con i denti di un coccodrillo, false lacrime per un sacrificio vero.
Però nella loro Africa, lontano da Nairobi, nella Rift Valley, la più grande scarpata del mondo, correre sembra giusto, ti senti finalmente a posto, puoi quasi toccare il cielo, che pare quello disegnato dai bambini, stando attento a non scivolare sulle cacche di vacca. Alberi, colline, tribù, pastori, uno skyline primordiale, tutti insieme appassionatamente, la voglia di pensare che la corsa, fuori da quella caverna, un senso ce l’ ha, anche senza clava.  Correre è ecologico, non inquina, lascia forse macchie nell’ ego, non butti via niente perché hai bisogno di tutto, e il fiato quando manca è una bava secca. E’ una pratica low-cost, si direbbe oggi, non proprio a chilometri zero. E trova sempre parole per dirlo, pure se corri appunto per non sentire più voci, in un gesto autistico che non prevede altri mondi, se non quella corona di spine che non sai se ti renderà martire o re." (Emanuela Audisio)